Dead Internet theory:
la rete ci ha abbandonati?
Lo studio recentemente condotto da Pew
Research Center sembra fornire basi concrete alla famigerata teoria. Il web sta
davvero scomparendo davanti ai nostri occhi?
“Forse te lo
sei perso, ma Internet è morto cinque anni fa”. Titolava così un articolo comparso il 31 agosto
del 2021 su The Atlantic. In quel momento, l’autrice Kaitlyn Tiffany diffondeva a
livello mainstream una delle teorie complottiste che più hanno fatto parlare di
sé nel corso degli ultimi anni. Teoria secondo la quale, come è facilmente
intuibile, la rete sarebbe stata progressivamente uccisa da un’azione combinata
di bot e manipolazioni governative.
La famigerata “dead
Internet theory”, emersa probabilmente come concetto nell’arco dell’ultimo
decennio – prima di “esplodere” tra il grande pubblico grazie al pezzo di
Tiffany – si comporrebbe infatti di due fondamentali caposaldi. Da una parte i
bot sarebbero i creatori di gran parte dei contenuti presenti oggi in rete,
contribuendo addirittura in misura maggiore rispetto alla controparte umana.
Dall’altra, i cosiddetti “poteri forti” si starebbero servendo degli sviluppi
in ambito di intelligenza artificiale per svolgere operazioni di gaslighting
nei confronti dell’intera popolazione umana – andando cioè ad agire, in maniera
subdola, su memoria e percezione degli utenti.
Se Robert Mariani, penna del The New Atlantis, aveva
definito la teoria una sorta di mix tra una vera teoria della cospirazione e
una creepypasta (termine con il quale oggi si identifica un racconto
dell’orrore diffuso in rete e basato su storie inventate, leggende
metropolitane o fatti realmente accaduti). Il presente storico che stiamo
vivendo sembra invece remare in tutt’altra direzione, specie in considerazione
del recente studio pubblicato da Pew Research Center, realizzato da Atena
Chapekis, Samuel Bestvater, Emma Remy e Gonzalo Rivero.
Il report, comparso lo scorso 17 maggio e basato su un
campione di pagine raccolte dal repository web Common Crawl per
ogni anno dal 2013 al 2023, ha infatti innanzitutto rilevato che circa il 38%
delle pagine web esistenti nel 2013 non risultano oggi più accessibili. Dato al
quale si aggiunge, almeno in una prima parte della disamina condotta, che il
23% delle pagine web di notizie contiene almeno un collegamento non funzionante
– percentuale che scende di due punti per quanto riguarda le pagine dei siti
governativi. Inoltre, scrive il PRC, Il 54% delle pagine di Wikipedia contiene
almeno un collegamento nella sezione “Riferimenti” che rimanda a una pagina che
non esiste più. Mentre in merito al cosiddetto “decadimento
digitale sui social media”, si rimarca il fatto che quasi un post di
X su cinque non è più pubblicamente visibile sul sito pochi mesi dopo la
pubblicazione e che alcune tipologie di post tendono a scomparire più spesso di
altre.
Strutturato
secondo le metodologie di ricerca di volta in volta messe in gioco, lo studio
esamina poi più nel dettaglio le differenti categorie prese in considerazione.
Dall’analisi delle quali, tra gli elementi di maggiore interesse riscontrati,
teniamo a riportare che oltre il 30% dei link presenti su siti rimanda a URL
diverse rispetto a quelle originali e che, all’interno del macrocosmo X, l’1%
dei post viene rimosso entro 1 ora, il 3% entro un giorno, il 10% entro una
settimana e il 15% entro un mese.
Le ragioni della scomparsa delle pagine web, esaminata su ANSA dall’esperto di digitale Vincenzo Cosenza,
potrebbero in realtà, secondo quest’ultimo, essere molteplici, “ad
esempio pagine che sono state eliminate o spostate, pagine ospitate su domini
che poi non sono stati rinnovati dal proprietario, oppure link diretti a
documenti che sono stati eliminati o spostati”. Se
invece si vuole ragionare dell’evanescenza dei contenuti in rete, è necessario,
secondo Cosenza, evidenziare il “passaggio dall’era del web statico all’era dei social
media”. Una nuova epoca in cui “i contenuti vengono creati
sempre più per fotografare un momento e poi scomparire, si pensi ai video brevi
e alle storie di cui non abbiamo link permanenti”.
Un’epoca dunque fondata sulla costruzione di un web “di
cui non resterà traccia nel futuro. Un web che è come un mandala che si
distrugge dopo averlo creato”.
E torniamo alla “dead Internet theory”. Perché se la fondatrice
della piattaforma New Models Caroline Busta, citata sul The
Atlantic, si era detta di fatto d’accordo con “l’idea generale” espressa dalla
teoria, pur riferendosi a buona parte della componente complottista nei termini
di una “fantasia paranoica”, lo studio di PRC è
sintomatico del fatto che, al di là dei voli pindarici relativi a presunte e
sotterranee macchinazioni globali, quanto portato alla luce da Kaitlyn Tiffany
& Co. poggia su una base di realtà che, giunti a questo punto, non è più
possibile ignorare.
Se poi pensiamo alle idee espresse da Geert Lovink nel suo Le
paludi delle piattaforme, di cui vi raccontavamo nel mese di febbraio, e al “vademecum
sull’abbandono” dei Big Data Server da lui proposto come unica strada per
riprendere possesso dell’Internet degli albori, la domanda sorge oggi
spontanea: e se invece fosse troppo tardi? Se fosse la rete ad aver abbandonato
noi?
fonte: Sentieri Selvaggi
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